Andrea Bassani: l´ intervista

di Pablo Paolo Peretti
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Intervista

1) Chi può essere definito un poeta e perché?

Il poeta è un ribelle. Non accetta la vita così com’è, il sistema come gliel’hanno imposto, il destino, la sofferenza, la perdita, l’abbandono, la morte. Il poeta non accetta la durezza e la crudezza di questo mondo. Ciò che per l’uomo “educato” è normale e naturale, per il poeta non lo è. Da questa insoddisfazione, da questo non saperne abbastanza, da questa ignorante passività a cui l’umanità si piega per decretata e risaputa impotenza, nasce la protesta del poeta, una protesta che si fa canto e ricerca della possibilità di evadere dalla comune condizione ed accarezza il sogno di elevazione a uno stato che potremmo definire “divino” o “di grazia”, che è il frutto di una misteriosa intuizione della verità capace di placare anche la sofferenza più dura. Il poeta è un uomo che reagisce nobilmente al suo infame destino e lo afferra per le corna: non si lascia educare da questi ma lo educa. Ecco, questo per me è il poeta. 

2) Come nascono i tuoi componimenti poetici? Dove trae spunto la tua creatività?

Le mie poesie nascono da sole, in momenti di debolezza, in attimi di intensità emotive che devo controllare per non esserne sopraffatto. Non c’è nessun gioco creativo, non c’è metodo letterario che renda ciò che scrivo un esercizio linguistico. Io ho scritto soltanto per domare una situazione difficile, per sopravvivere a un vuoto, per proseguire a vivere quando il destino ha minacciato la mia dignità. Grazie alla poesia ho potuto amare anche il momento della necessità. La poesia mi ha permesso di amare ciò che detestavo. È una magia questa che non si impara: ti viene trasmessa forse da bambino, da qualcosa o qualcuno. È una materia incandescente, uno spirito che assorbi e veglia sul tuo cammino. Resta silente per anni, ma quando arriva il pericolo si manifesta. Poi tace di nuovo, ma tu sai che è ancora presente. 

 

3) Chi ti ha influenzato come poeta, e perché?

Quando ero bambino, io e mio nonno Mario stavamo ore insieme nell’orto, il giorno e la sera. Lui mi raccontava storie e conosceva molte poesie a memoria. Poi mi chiedeva di indicare un ortaggio, un frutto o la luna o una sedia. Io sceglievo e lui mi improvvisava una poesia su ciò che avevo scelto. È certamente stato lui a porre il seme della poesia nel mio sangue. Lui era un contadino ed io una terra vergine. Perché l’ha fatto? Perché era un poeta. In magia credo si dica “lasciare il segno”. 

4) Devi elogiare 3 poeti recenti oppure scomparsi e purtroppo dimenticartene altri 3. Quali sono e quali libri salvi o rinneghi?

Sarebbe troppo riduttivo elogiarne tre e dimenticarne tre soltanto. 

5) Cosa ne  pensi di Rimbaud che asseriva che il peggior nemico di un poeta è un altro poeta? 

Penso che Rimbaud sia stato un genio, ma non c’era pace nella sua anima. Egli ha composto liriche illuminanti ma non ha saputo amare il suo prossimo e nemmeno se stesso. 

6) E' più facile scrivere poesia o narrativa?

Non mi sono mai occupato di narrativa, non ancora (forse). Tuttavia credo che la narrativa possa concedere una leggerezza operativa che in poesia non è possibile, se la poesia è affrontata seriamente e considerata nella sua sacralità. 

7) In Italia si pensa ci siano circa quattro milioni di ipotetici poeti. Come riconosci chi fa poesia da chi scrive bei pensierini che vengono confusi con la stessa?

Io non amo giudicare l’operato degli altri, però sono convinto che con l’arte non sia possibile imbrogliare. Io discerno le poesie in tre categorie: le poesie che sento scritte con l’anima, quelle che sento scritte con la mente e quelle che sento scritte con la mente nell’anima. Le poesie scritte con l’anima tendenzialmente mi appaiono cariche di energia emotiva ma immature, giovani, acerbe. Le poesie scritte con la mente hanno peculiarità tecniche letterarie e filosofiche più o meno apprezzabili ma non danno emozioni nel leggerle perché appunto non sono state scritte con l’anima. Le poesie scritte con la mente nell’anima sono, spesso e volentieri, le poesie perfette tra cui spiccano i capolavori che ci fanno appassionare. 

8) Come reagisci quando ti chiamano poeta? 

Dipende. Certamente non me ne vanto. Non ci tengo ad essere chiamato o riconosciuto poeta, non mi interessa. Mi interessava a ventitré anni, quando ero giovane, bello e vanitoso. Ora mi interessa l’effetto che ha la mia poesia sugli altri. Fare poesia è una missione umanitaria. Non basta scrivere ed atteggiarsi con il cappello alla Neruda e la pipa in bocca. Si deve essere sacerdoti della Poesia. 

9) Hai qualche poeta che hai conosciuto nel virtuale che vale la pena seguire? E se si, come si chiama/chiamano e che libri consiglieresti.

La poesia è qualcosa di talmente intimo e tocca corde così personali che non credo sia possibile dare un’indicazione in questo senso. Chi cerca la poesia la trova nel verso che ripercorre un suo vissuto passato o presente. Questi incontri accadono, fuori dal nostro controllo. Ci si inciampa nel poeta da seguire. 

 

10) Hai la possibilità di andare a cena con un poeta o poeti ancora in vita o scomparsi. Con chi vorresti trascorrere la serata e perché? 

Sicuramente vorrei cenare col poeta Bassani, per capire cos’è successo ad Andrea.

 

Biografia

Andrea Bassani nasce a Bergamo nel 1980. A diciannove anni, insieme a un gruppo di amici, costituisce una blues band della quale è cantante e si esibisce in locali notturni lombardi. A ventitré anni compone i primi versi e si avvicina con interesse al mondo della letteratura. A ventisei anni stampa la sua prima raccolta di poesie dal titolo “Amore Androgeno” (Edizioni d’arte Imedea). Per Alberto Casiraghy pubblica la plaquette “Mare” (Pulcinoelefante) con un disegno di Giacomo Pellegrini. Incontra la poetessa milanese Alda Merini, nel suo appartamento sui Navigli, alla quale sottopone i suoi scritti. Durante un secondo incontro la stessa poetessa lo invita a proseguire sulla strada della versificazione con più alte ambizioni. Nel 2007, in seguito a un’importante conversione spirituale, lascia famiglia, amici, lavoro e si trasferisce a Pistoia.

Trascorre cinque anni d’inattività artistica durante i quali si dedica allo studio delle filosofie orientali e al volontariato. Solo nel 2013, a seguito dell’incontro col prof. Ernesto Marchese, relatore di una serie di conferenze sulla poesia classica e contemporanea, ricomincia a scrivere. Il suo “Cantico della Bellezza” viene letto nelle sale affrescate del comune di Pistoia dalla compagnia teatrale “Il Rubino”.

Una sua silloge tratta dal poema “Lechitiel” è pubblicata e recensita dalla poetessa Maria Grazia Calandrone sulla rivista internazionale “Poesia” del Febbraio 2016 (n°312). Otto inediti vengono pubblicati su Nazione Indiana. Riceve due lettere di critica positiva dal Cardinale Gianfranco Ravasi. Pubblica nel 2016 per “Terra d’Ulivi edizioni” il poema “Lechitiel”, apprezzato anche in Francia tanto da essere inserito nel prestigioso catalogo della Biblioteca del Centro Pompidou di Parigi. Partecipa a reading letterari e collabora con importanti personalità della letteratura contemporanea. Alcune sue poesie si possono ascoltare su canali youtube. Parallelo e altrettanto vissuto come espressione poetica è il suo percorso pittorico. Ha scritto di lui Bernard Tiburce (Bibliotecario del Centro Pompidou di Parigi) e il Prof. Clemente Francavilla (Docente di Teoria della percezione visiva e Psicologia della forma, Accademia di Belle Arti di Bari). 

Ha ricevuto un giudizio positivo dal critico d’arte Gian Ruggero Manzoni. La sua opera “Il Profeta” è stata collocata presso il Museo sacello di Sant’Egidio della Chiesa San Pasquale Baylòn di Taranto.

Nel Dicembre 2017 la commissione della Rivista Internazionale “Vesalius. Journal of the International Society for the History of Medicine” sceglie il disegno “Gli occhi di Vesalius” per la copertina del Vol.XXIII, N°.2. L’opera “Gli occhi di Vesalius” è in esposizione permanente nell’Archivio Tematico Museale per la Storia delle Arti Sanitarie (ARTEMAS) del Policlinico di Bari. Nominato giurato per la prima edizione (2017) del premio di poesia Maria Maddalena Morelli “Corilla Olimpica” città di Pistoia insieme ad Ernesto Marchese, Matteo Mazzone, Marco Marchi, Gabriella Grande, Giacomo Trinci, Antonella di Tommaso. Nel 2017 una sua biografia e alcune poesie tratte da “Lechitiel” compaiono nell’antologia poetica rumena “Poezia”, tradotte dalla poetessa Eliza Macadan. Nel Febbraio 2018 pubblica la plaquette “Sia poesia” per “Il ragazzo innocuo editore” di Luciano Ragozzino: 50 copie autografate contenenti sei poesie e un’incisione originale. Nel Settembre 2018 pubblica “la castità” (Ensemble), nella nuova collana “Leontopodium” per cui realizza il logo.

 

 

Poesie

 

da Lechitiel (terra d’ulivi edizioni)

poema catalogato alla BPI del Centro Pompidou di Parigi

 

Nell’assenza di te assenzio 

tra miliardi di parole vuote che non mi interessano 

dentro voci che mi entrano e mi escono 

a cui non ho chiesto né di entrare né di uscire. 

 

Nell’assenza di te assenzio 

sulla pagina di un giornale che non leggo 

in questo bar che non saprei riconoscere una volta fuori 

girando per la sesta volta il caffè che berrò  

mentre la tazzina sotto gli occhi mi scompare. 

 

Nell’assenza di te assenzio 

sottoposto ad un quotidiano scorrere di immagini 

e all’insopportabile sonoro dell’uomo che deve parlare 

e lamentarsi e polemizzare e sottolineare. 

 

Nell’assenza di te assenzio 

fisse le mani al carrello  volando tra prodotti alimentari  

che soltanto intravedo ai lati passare 

o assorto nel mantra rotante di una lavanderia a gettoni;  

ascoltando senza ascoltare  

venditori ambulanti, pizze surgelate,  testimoni di Geova, frati, mormoni;  

annuendo con eguale sorriso  

alla vecchia ipocondriaca che mi assilla  

con la sua sinusite ed i suoi irrimediabili dolori. 

 

Nell’assenza di te assenzio 

tra clacson che mi insultano barbarici 

perché non scatto a semaforo verde. 

Sotto la doccia che mi lava 

nello specchio che mi pettina 

nell’anonimità di un viale affollato  

nel confessionale che mi assolve dal peccato, 

nell’assenza di te assenzio 

e rispondo a chi si aspetta una risposta; 

guardo negli occhi chi mi cerca lo sguardo 

ma sono sempre da un’altra parte, 

presente altrove, 

in un posto assai più lontano da dove mi vedi. 

 

Un luogo questo che non saprei indicarti 

se tu volessi raggiungermi un giorno:  

è simile ad una camera oscura 

dove ci sono tante parole che ti girano attorno 

in attesa che l’angelo le chiami per condurle ai poeti 

che alla terra le daranno con le mani 

e con lacrime amare 

ad un pugno di anime mute. 

 

Dal catalogo d’arte “La carne dell’anima” a cura di Gabriella Grande (terra d’ulivi edizioni)

“La Valchiria” (Inchiostro su foglio Fabriano, 50x36 cm)

 

“Non potendo più amare chi amava 

sprofondò in un regno inferiore, 

un piano astrale ove la speranza agonizza col sogno 

nell’angolo più tetro della terra. 

Non potendo più amare chi amava, 

una patina di brina manteneva il cuore ibernato 

e la mente fissa al quadro evanescente di una felicità che poteva proseguire, 

che poteva continuare a maturare 

ricostruendo lo scenario primigenio di quando l’anima era un dio disincarnato.

 Non potendo più amare chi amava, 

le papille gustative rifiutavano il sapore 

e la bocca resisteva al cibo non più dato dalla sua bocca. 

Non potendo più amare chi amava, 

la cancrena fiorì nel grembo 

come un giglio ancora puro che però si cinge di bugie e ragnatele 

dando origine all’innesto dell’amara edera della melanconia. 

Non potendo più amare chi amava, tentò di amare tutti. 

Ma la somma di tutti gli occhi non dava la sua anima 

e la somma di tutte le materie non il suo corpo. 

Tutto non le bastava. Aveva bisogno di lei. 

Perché ogni rondine ha il suo nido insostituibile 

e una metà un incastro immutabile per una sola altra metà.”

 

Da “La Castità” (Ensemble edizioni, Roma)

Finalista al Premio Europeo Clemente Rebora 2019

 

Lo specchio del mattino

 

Mi cerco nello specchio ogni mattina. 

È strano. 

Mi ho davanti ma non mi trovo. 

Forse non sto guardando di più 

che uno scimmiotto in simile lattice, 

che mi fissa perché lo fisso

e che sta immobile perché sto immobile, 

qui, davanti a me, 

qui, davanti. 

 

Mi guarda da dentro il vetro, assente, 

fermo ed assente. 

Se io non gli ordino il movimento

se ne sta lì, dritto come uno stoccafisso. 

Sta lì, completamente disanimato.

Sta lì, privo di gioia e di dolore, 

in attesa di comando 

come un sacco qualsiasi, 

un già cadavere in piedi, 

un morto eretto,

tradito da un riflesso, 

smascherato. 

Più lo osservo attentamente 

più ne scopro la finzione, 

il trucco straordinario.

No, non è me. 

Non sei io, non sei.

Sì, lo ammetto, 

ancora mi servi perché mi occorre 

una mano per scrivere. 

 

Ma tu sei solo un mezzo

e per giunta espiatorio. 

Chissà se hai un interruttore nascosto 

da qualche parte. 

Potrei spegnerti ed andarmene. 

Potrei essermi stancato di giocare ad essere te. 

 

Mio Dio, dove sono? 

Sono dentro un robot di carne 

che ora è dentro uno specchio ovale, 

che ora è dentro questo bagno, 

dentro questa casa, 

dentro questa via, 

dentro questo paese, 

dentro, dentro, dentro,

fino all’universo, 

dentro all’infinito, 

così infinitamente immenso 

e così infinitamente piccolo. 

Un infinito 

che è principio e fine di se stesso, 

come due infiniti opposti e distanti 

che però sono lo stesso 

e nello stesso infinito. 

 

Mi cerco nello specchio ogni mattina.

Non vedo più che un povero fantoccio, 

un’immagine che dico mia 

perché non ho immagine. 

Un’immagine costretta a prestarmi la sua immagine

e io costretto ad accettarla.

 

Per quanto poco tempo cammineremo insieme, 

sappi che non ti amerò 

e non ti ho mai amato. 

Un giorno ti lascerò 

e tu farai la fine di una latta vuota 

non riciclabile. 

Ma che te ne importa: 

è in virtù di me che vivi, 

mio stanco e sgraziato 

pupazzo mutante.

Da qualche parte io sono, 

lì dentro di te, sì, 

da qualche parte, 

dentro di te io sono. 

Dentro di te, 

dentro lo specchio ovale, 

dentro questo bagno, 

dentro questa casa, 

dentro questa via, 

dentro questo paese, 

dentro, dentro, dentro.

 

Così mi vedo

senza vedermi

e non vedendomi ho la conferma di Dio 

e di tutte le sue creature 

che stanno aspettandomi,

anch’esse, da qualche parte, invisibili agli occhi, 

anch’esse forse cercandosi invano 

in un riflesso;

ingabbiate cavie da laboratorio, 

recluse, 

tenute nascoste a se stesse 

dentro una menzogna, 

toccando cose, 

annusando profumi, 

assaggiando sapori costruiti apposta;

indotte ad amare, a lottare, a soffrire

e quel che è peggio a pensare

come se mai bastasse, 

fino alla morte dell’asino.

 

Ci vuole poco a essere un’ombra

 

Una giostra di cavalli bianchi,

una lunga tavolata di francesi

dominante piazza grande,

rumore di bicchieri, 

voci che non comprendo,

giochi che non più mi riguardano:

divertimenti qua e là sparsi

che non mi rendono affatto nostalgico

del tempo in cui godevo del tempo.

 

Prima impari a camminare in fretta, 

prima arrivi. 

Bisogna soffermarsi il meno possibile

e accontentarsi dei propri panni. 

Mi addentro in una stretta viuzza

per non incontrare nessuno:

oltre i portoni 

le finestre emanano

odore umido di famiglia. 

Un antiquario propone angeli d’ottone.

Contemplo il miracolo della luce

in una piccola lanterna accesa 

sotto l’effigie scalcinata di una madonna.

 

Sul mio cammino una coppia irriverente:

non si sfalda né si sposta. 

Viene dritta verso di me come un ariete. 

La schivo io, 

prima che mi frantumi.

 

Mi c’è voluto poco a essere un’ombra,

ora d’erba, ora d’asfalto,

con la mia stessa andatura goffa, 

spalle avanti, schiena curva.

Con quella solita andatura 

scoglionata, stanca, 

per cui ancora mi riconosco

figlio di mio padre.

 

Ci vuole poco a essere un’ombra, 

un nulla impresso sui muri di calce, 

stretto e lungo per le discese, 

spezzato sulle gradinate,

buio su buio, 

vuoto ambulante.

Pietoso riflesso di me,

del mio io arreso

che mi cammina accanto.

 

Se mi fotografi non chiedermi di sorridere

 

Ho timore delle fotografie.

Quando mi aprono gli album di famiglia

sembra di sfogliare l’archivio 

dei desaparesidos. 

Nelle foto sorrido di rado: mi riconosci subito.

Non sorrido perché dietro l’obiettivo 

c’è qualcuno che mi sta ordinando di sorridere.

 

Tutti che sghignazzano come babbei:

“cheeeeeese”.

 

Mentono alla pellicola sapendo di mentire

per poi dimenticarsi di quella fotografia

e riscoprirla per caso dopo cinquant’anni

in una scatola di bottoni 

sotto una pila di polvere.

E sospirare:  

“ah, che bei momenti”. 

 

Non importa se quel giorno

hai bucato una ruota e 

tornato a piedi fino a casa

hai sorpreso la tua fidanzata 

a letto col tuo migliore amico.

Nella fotografia sorridi.

 

Le fotografie non servono a ricordare il passato

ma a falsificarlo.

 

Web  www.andrea-bassani.com

 

Instagram @andreabassani_art

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