Un Piemonte tutto da scoprire: il Principato di Lucedio e il “primo riso” italiano

di Elisa Borella
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Vogliamo sfatare un mito che accompagna gli italiani dall’alba dei tempi? Ebbene, udite udite: nel Bel Paese non si vive di sola pasta (che pure costituisce uno dei prodotti più famosi e imitati del nostro made in Italy), ma anche… di riso! E la sua coltivazione sul suolo nostrano è davvero antichissima, tanto che il “primo riso” italiano risale addirittura all’inizio del ‘400 e ha visto la sua comparsa nel cuore del Piemonte più vero!

Ci riferiamo ovviamente al riso del Principato di Lucedio, oggi azienda agricola ben radicata sul territorio del vercellese ed esportatrice del prezioso cereale (molto richiesto all’estero), mentre un tempo frutto maturo della presenza costante di una confraternita di monaci cistercensi stabilitisi a Trino già nel 1123 e fondatori nella zona di un complesso abbaziale che, dal punto di vista architettonico (e culinario!), è sicuramente degno di una visita.

Fu, infatti, grazie all’industriosa attitudine di quei monaci (e, a dirla tutta, anche alla loro mentalità un po’ avanti coi tempi) che le zone paludose attorno all’abbazia furono progressivamente bonificate, rese adatte alla coltivazione di riso (che in gergo tecnico si definisce “risicoltura”) grazie ad opere idrauliche di canalizzazione, e quindi incamerate dal complesso monastico come patrimonio fondiario attraverso l’intermediazione di personale laico, il quale poteva serenamente godere del possesso di beni materiali o di terre in quanto non sottostava a una rigida Regola – che imponeva, invece, ai monaci la povertà, oltre che la castità e l’obbedienza al proprio ordine.

E l’appellativo di “Principato” allora? L’abbazia inizialmente si era comportata come una piccola città, in grado di provvedere autonomamente alla propria sussistenza, ma sulla quale vigilava l’occhio attento dei marchesi del Monferrato, i quali (in seguito alla donazione di alcuni terreni e di materiale edilizio) detenevano il patronato sul complesso. Dalla metà del ‘600, però, la sua storia divenne sempre più ingarbugliata: passato dal ducato di Monferrato al vicino ducato di Savoia, a fine Ottocento perse addirittura il suo status ecclesiastico, subendo un cosiddetto “processo di secolarizzazione”, terminato il quale entrò prima a far parte dei possedimenti del cognato di Napoleone, poi di quelli del governo sabaudo e infine di una società costituita da tre privati; uno di questi cedette poi la proprietà al duca di Galliera, il quale venne insignito dal re Vittorio Emanuele II del titolo di principe per l’impegno profuso nei confronti della patria ed è proprio grazie a lui che gli eredi, ancora oggi residenti nella proprietà, possono orgogliosamente conservare il prestigioso appellativo.

Ma le peculiarità del Principato di Lucedio non finiscono certo qui! Leggende e misteri che avvolgono l’abbazia vercellese in un’atmosfera degna della migliore imitazione de Il nome della rosa” a parte, gli edifici dell’intero complesso (la Sala capitolare con la sua “colonna che piange”, la Sala dei conversi con le sue volte a sesto acuto e il mattone a vista, lo splendido chiostro) sono ben conservati dal punto di vista storico-artistico e valgono decisamente una visita (ogni domenica pomeriggio vengono, infatti, organizzati dei tour guidati in loco e alcuni coraggiosi ci organizzano addirittura degustazioni o ricevimenti nuziali!); altrettanto interessante è, infine, il negozietto che vende al pubblico il riso di Lucedio (Arborio, Baldo e Carnaroli, per ottimi risotti, Venere, cioè il riso “nero”, Selenio, adatto per il sushi), rigorosamente prodotto senza conservanti e in atmosfera modificata per mantenere intatta la sua qualità e i suoi elevati valori nutrizionali.

Se volete davvero scoprire tutti i segreti del mondo della risicoltura e della produzione del cereale, conviene, però, spostarvi poco lontano da Lucedio, a Fontanetto Po (sempre in provincia di Vercelli), dove ha sede l’Antica Riseria Mulino San Giovanni. Presente nella classifica dei “luoghi del cuore” del FAI (Fondo Ambiente Italiano) e parte integrante dell’“ecomuseo delle terre d’acqua”, come recita il nome stesso, questo complesso in grado di catapultare chiunque indietro di qualche secolo conserva l’unico mulino della zona ancora azionato dalla forza motrice dell’acqua e un piccolo museo dall’impostazione fortemente didattica che, sala dopo sala, espone attrezzi e strumenti antichi, raccontando tutte le fasi di coltivazione e di produzione del riso; sempre in loco è possibile, infine, prenotare visite e acquistarne i prodotti.

Insomma, se dopo questa breve carrellata di aziende impegnate da secoli nella coltivazione e nella commercializzazione del riso siete ancora convinti del fatto che il prodotto italiano più tipico sia ancora la pasta, non vi resta che fare un salto in Piemonte e appurarlo con i vostri occhi!

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